*
La pioggia batte
e diventa asfalto,
ma l’orologio del veliero
non rende onore
al ritmo
delle spinte
liquide.
Eppure gli anziani
sono qui,
a domare legno
ed orti,
in una brulicante
operosità tremante.
I vecchi brontolano
con voce
che solletica la nuca,
perché, dopo
i settanta, ogni lasciata
non è persa:
è una beffa reale
che odora
di buon senso
e di recalcitrante
decoro.
*
Placida, sotto
la pioggia della salute.
Non temo il castigo,
né l’imprevedibilità
di un respiro che non corre
verso i secondi
successivi e muore
veloce, con un gemito
silenziato.
Il caso e la genetica
hanno già scommesso
su altri, non ancora
su di me.
Le cellule vibrano
e forse dentro di esse
si nasconde
la sfera lattiginosa
di un veggente che non gioca
con il volo degli uccelli,
ma con quello
dei cromosomi.
Placida, sotto
la pioggia della salute,
vorrei non pensare al sole
e stendere un velo
di pelle vigorosa
sui riflessi
del futuro.
*
Roma,
felicemente Roma.
Infinitamente Roma,
se ripenso ai secoli
lunghi
che tagliano ogni tuo
grano solido
e che colmano
la mente dei viaggiatori
occasionali.
Ti sento torbida
nelle tue vie,
mentre mi chiami
dall’ennesimo negozio
di false antichità.
*
Carne da carne
e ti sei donata
all’eredità.
Baciata dal tuo ventre,
riempio il cruciverba
della maternità.
In un Gondwana
di cromosomi
hai modellato il drappo
della possibilità.
*
Nevica neve chimica
e si sdraia
sul marciapiede.
Si architettano con le dita
battaglie e pupazzi,
nel cantiere d’asma cruda
della città
che sbuffa e suda e grugnisce.
Nevica, ma non è neve:
l’inverno troppo ostinato
viene assolto
da ogni processo,
ride e se ne va.
*
Ecco, il piccolo
equilibrista vibrante
fra eternità e disperazione.
L’orologio dice:
“È ora!”, in cerchio
ascoltiamo la storia.
Prego, notare
i riflessi dorati
di eroi di carne
e ambizione.
*
Sulla lingua
del toro
nasce una città.
I suoi vicoli
di danza ispanica
si sposano senza pretesa
di felicità,
in un altro morso
di carnalità.
Tornerò, con te:
per bere il calore
di Barcellona,
sorseggiato piano
dalle tue mani.
Per vedere ancora questo
sporco mare,
ferino e possessivo,
disarcionato dal drappo rosso
di un giovane torero.
*
Bonzo, corri
e ti spegni
in cinquanta metri
ad alta infiammabilità.
Uomo scintilla, in una smorfia
di sorriso
pulsa la tua carne
d’Oriente
e l’urlo di un paese
sviscerato.
*
Dici che mi vesto
d’antilope
e niente può smentirti.
Nel mio corpo
non sento lo squillo
di sabbiosa elettricità
che anima zoccoli,
coda e ventre,
spingendo al salto
e al rimbalzo.
Non vedo nemmeno
le mammelle
adatte a saziare, tiepidamente,
il figlio di un
re corridore.
Animale totem, non accetti
compromessi e mi
ritrovo tra le tue
braccia.
Mi chiamo Martina Melgazzi. Ho diciannove anni, vivo a Brescia e frequento il primo anno di Lettere Moderne con enorme soddisfazione, dopo cinque anni di Liceo Scientifico affrontati con una scarsissima propensione per le materie scientifiche e un’intramontabile attenzione per gli argomenti umanistici. Ci sarebbe da chiedersi perché scelsi un Liceo del genere: bella domanda.
Ho una mamma, un papà e una sorella pelosa con il naso umido e le orecchie pendule.
Adoro la mia città, amo le parole, sono una patologica malata di scrittura e una mangiatrice di film e libri.
Scrivo poesie e racconti brevi da quando avevo quattordici anni e mi fremono le mani se non produco qualche cosa a ritmi regolari: è una dipendenza impossibile da abbandonare.
Sono impegnata nel sociale, collaboro con Mani Tese e con Bimbo Chiama Bimbo Onlus.
Lavoro con il gruppo Nuova Resistenza Brescia, la sezione giovanile dell’ANPI, perché indignarsi è indispensabile, ma agire lo è ancora di più.
Ho deciso di interessarmi al corretto funzionamento della mia Università attraverso la lista Ateneo Studenti.
Curo con grande piacere un piccolo blog: http://sonodunquescrivo.blogspot.it